AmicoHarvey Film

AMICOHARVEY FILM

giovedì 22 maggio 2014

PRETAPORTER

Nuovi video disponibili: pretaporter.amicoharvey.com

HER - a cura di Michela Pavan


Film originale: affidare il  ruolo di co-protagonista femminile a una voce. E’ essenzialmente una storia d’amore, impostata come una storia d’amore “al singolare”, appoggiandosi sullo sforzo dello spettatore di associare a una voce un individuo e alla capacità del protagonista maschile di ascoltare, diventando volto emittente e ricevente. Il film riesce a fare dell’assenza (ben più forte presenza) il centro di una riflessione tutt’altro che banale perché non limitata solo alle questioni dell’amore, ma a tutte le relazioni umane. Della difficoltà enorme insita nella ricerca della felicità. Felicità fatta di cose materiali, ma anche di spirito e intelletto, dall'equilibrio precario e misterioso. Per dar voce e corpo a uno dei più consueti e antico tra i temi trattati dall'arte (e dal cinema ), il registra utilizza in maniera personale e addirittura "nuova",  un elemento fantastico, l'inserimento di una sola inverosimile stranezza per attivare meccanismi e percorsi nuovi di rappresentazione.
Ambientato in un futuro abbastanza prossimo, in una Los Angeles riconoscibile non solare e essenzialmente vuota, Theodore (Joaquin Phoenix) è impiegato di una compagnia che attraverso internet scrive lettere personali per conto di altri. Da quando si è lasciato con la ragazza che aveva sposato non riesce a rifarsi una vita, pensa sempre a lei e si rifiuta di firmare le carte del divorzio. Quando una nuova generazione di sistemi operativi, animati da un'intelligenza artificiale sorprendentemente "umana", arriva sul mercato, Theodore comincia a sviluppare con essa, che si chiama Samantha, una relazione complessa oltre ogni immaginazione. L’OS “voce” si dimostra sensibile, profondo e divertente, il rapporto si crescerà in amicizia, si trasformerà in amore, ma…
Non è un film di immagini, a parte i primissimi piani sul protagonista maschile (tra l’altro con un Joaquin Phoenix super espressivo nell’esprimere l’inquietudine e sofferenza). E’ un film strutturato essenzialmente sui dialoghi tra il protagonista e la sua Intelligenza Artificiale, dimostrando quanto può essere affascinante l’uso della voce (quella Scarlett Johansson nella versione originale e Micaela Ramazzotti in quella italiana); soprattutto “la parola”, in tutte le sue sfaccettature, diventa elemento della fascinazione.
Nel film la voce e la “parola” del Sistema Operativo sembrano essere sufficienti a superare l’handicap della “non fisicità”. Il sistema operativo riesce a interagire con l’umano utilizzando una metodologia prettamente scientifica, cioè immagazzinando tutte le informazioni collegate all’individuo e sviluppandole tramite l’esperienza, in questo modo si concretizzerà una “affinità elettiva”, in realtà non veritiera ma costruita meccanicamente.
Questo trasparirà solo alla conclusione del film. In realtà essendo una macchina verrà svelato che il rapporto non è univoco e personale, ma riguarderà più soggetti contemporaneamente e dimostrerà quanto la tecnologia può essere disumana in cui tali sistemi operativi possono collegarsi con 8316 persone e innamorarsene di 641.
Il registra non infierisce contro la tecnologia anzi la asseconda in queste applicazioni estreme anche con dei risvolti grotteschi. In questa storia la tecnologia aiuta e non ostacola lo spirito a emergere  Non si evidenzia cosa la tecnologia rischi di farci ma chi siamo noi mentre ci guardiamo nel suo specchio.
Alla fine l’immagine che ne esce è di un profondo stato di vuoto. Un futuro molto triste si prospetta,  in cui i rapporti interpersonali sono ridotti ai minimi termini, ognuno relegato in se stesso e appigliato al proprio auricolare in case tristi vuote e grigie, in cui passione e divertimento diventano i soli giochi virtuali.

HER - Regia di Spike Jonze. Con Joaquin Phoenix, Scarlett Johansson, Amy Adams, Rooney Mara, Olivia Wilde


mercoledì 14 maggio 2014

Film e Musica, un grande connubio se interpretato da filmmaker! Nuovo sito di piccoli film:

lunedì 8 ottobre 2012

Sapore di Ruggine e Ossa - a cura di Alberto Colognese



Diciamo subito quello che a molti interessa: è un bel film ? Risposta: assolutamente sì.
Perché poi sia un bel film è faccenda più complicata. Si sa, infatti, che ognuno legge le immagini e le storie a modo suo e le re-intepreta secondo il proprio vissuto.
Proviamo a dipanare questa matassa sintetizzando in poche parole il nostro film: le vite di un uomo – Alì – e una donna – Stephane – si incrociano. Ognuno martoriato nel corpo o nello spirito troverà con l’aiuto dell’altro di trovare il prioprio riscatto.
Questo ad una lettura volutamente banale. Ma in realtà le cose sono un poco più complicate e, sorprendentemente, nel film della Audiard c’è un protagonista invisibile attraverso il quale lo spettatore troverà il fil rouge della storia: l’acqua.
Un concetto polisemico. L’acqua come metafora della vita stessa, brodo primoridiale in cui tutti viviamo e l’acqua come elemento purificatore e rigenerante.
 “Sapore di ruggine e ossa”, può essere quindi riassunto più compiutamente così: E’ un film sul battesimo, l’epifania di uomini e donne che si trovano, per i casi della vita, di fronte ad un bivio: affogare e lasciarsi trascinare a fondo dalla vita o riemergere, accettare il cambiamento e viverlo da protagonisti ?
Quella che ci viene mostrata però è un’acqua sporca, torbida, attraverso la quale è diffcile vedere (si guardi ad esempio l’incipit del film o la scena dell’incidente alla protagonista o, ancora, la scena finale in cui il bambino cade nel lago). Nulla è trasparente e i brandelli di carne, i rifiuti di materiale organico, che galleggiano sospesi sono parte integrante dell’elemento.
Bellissimi gli stacchi dove alla narrazione del film si sostituiscono immagini astratte di liquidi in bollore, oggetti in galleggiamento. Immagini apparentemente slegate dal contesto filmico ma, in realtà fil rouge sostanziali.
Nella rappresentazione filmica noi spettatori, così come i protagonisti, non vediamo bene, non siamo messi grado di scindere il bene dal male, non siamo abilitati a giudicare e non esiste un Dio che ci possa salvare di sua iniziativa. E’ l’umanità, il singolo che deve trovare la propria strada e tornare a riva dal pantano immobile che tutto accomuna: “No Guru, no Method, no Teacher” cantava Van Morrison.
Il male viene dall’acqua (l’orca che dilania le gambe di Stephane, il lago che inghiotte Sam, il figlio di Alì) come allo stesso modo dall’acqua viene il bene .L’acqua, in tutte le sue forme – acqua di mare, di piscina, acqua ghiacciata, neve, pioggia -   è come il richiamo delle sirene di Ulisse e tutti ne sono attratti. Nessuno riesce a starne distante e sente il bisogno di immergersi. Ci si immerge per vivere. Non è un caso che la prima cosa che fa la protagonista dopo l’incidente in piscina sia proprio quella di tornare a bagnarsi in mare.
La sporcizia, il male di vivere, che abbiamo addosso però non viene lavata via; l’acqua, proprio perché sporca e stagnante anch’essa, non può ripulire le persone che continuano a bagnarsi nel torbido. E tutto questo con buona pace di Eraclito quando scrisse  “Tutto scorre. Il fiume in cui entrano è lo stesso, ma sempre altre sono le acque in cui ci bagniiamo” (Diels-Kranz, fr. 12)..
In questa acqua non possiamo neanche specchiarci per vedere cosa siamo diventati. Così finisce che ognuno si costruisce la sua epitome personale, la sua weltanschauung privata.
Per capire cosa siamo realmente abbiamo bisogno dell’aiuto di una persona esterna e, quindi, lentamente – come è dolce e lento il film nel suo andare – la regia innesta il tema dell’amicizia, che diventa amore salvifico nel finale, tra Alì e Stephane: se nessuno può specchiarsi da solo, se nessuno può sapere in autonomia cosa è, allora serve l’aiuto di qualcuno altro rispetto a noi.
Dove l’acqua non è specchio lo diventano le altre persone o, per meglio dire, le vicende dolorose delle altre persone. Non è un film sulla catarsi, si badi bene: Stephane, nella relazione con Alì, scopre se stessa e non sublima solo il suo mal di vivere nei drammi di Alì. Non siamo di fronte a un “mal comune, mezzo gaudio” in cui si vive insieme come stampelle reciproche (vere o finte che siano).
Tutto evolve con un ritmo lento (ma non pretestuoso), in un tempo sospeso e in un mondo ingessato con i protagonisti immobili: nessuno si aspetta nulla proprio perché nulla può accadere. Questo  è ben puntualizzato dal distacco che la camera mantiene con gli attori; mai in soggettiva perché non si vuole dare allo spettatore nessuna chiave di lettura precostituita, non si vuole avvalorare alcuna tesi. Le riprese sono “sporche” nei loro finti sobbalzare da filmino famigliare. I colori non sono mai forti e definiti (ma che belli!) neanche nelle giornate di sole passate in riva al mare da Stephane e Alì. Non esiste estate o inverno, pioggia o sole, ma solo giorni tutti uguali e indistinti.
Nella loro quotidianità le storie dei personaggi, prese ognuna per sé, sono banali e insignificanti. Stephane è una donna insofferente della vita, in cerca della propria strada. Alì, che sa dialogare solo con i pugni, una strada non l’ha mai avuta e probabilmente non l’ha mai cercata. La sorella e il cognato di Alì sono persone incolori, indefinite che vivono alla giornata.
I dialoghi, costruiti ad arte, sono funzionali a tutto questo: le domande quindi esigono risposte puntuali o addirittura non risposte (“mi hanno appena licenziato per causa tua e tu non hai nulla da dire?”). In realtà addirittura i quesìti stessi non sono domande ma poco più che scambi di informazioni in un mondo che non sa dialogare.
In questa situazione disastrata e apparentemente senza speranza la Audiard  crea una rappresentazione che culmina in una bellissima storia di Amore; l’Amore per se stessi, la solidarietà per gli amici, il rispetto per il proprio compagno/a.
Come abbiamo detto è un film bello, intenso, drammatico e quando al termine si accengono le luci scopriamo di avere avuto la possibilità di meditare anche un po’ su noi stessi.
Se tutto questo vi pare poco non andate a vederlo, altrimenti non perdetevi  l’opportunità che la Audiard  ci regala.

domenica 5 febbraio 2012

"E ora dove andiamo?" di Nadine Labaki - a cura di Luigi Mezzacappa


Come si fa a trattare temi come la guerra o i conflitti religiosi e culturali in modo profondo e leggero, toccante e liberatorio, autentico e "ruffianello"? Se vi interessa saperlo, andate a vedere "E ora dove andiamo?" di Nadine Labaki.
Possiamo anche entrare in sala "preparati", possiamo esserci documentati; possiamo già sapere come si snoda la storia tra i grandi drammi dell'universo e i problemi di un piccolo villaggio sperduto tra le montagne di un Paese mediorientale; possiamo già sapere che Nadine Labaki è giovane e brava, che questo è il suo secondo film e che il primo, Caramel, è piaciuto a critica e pubblico; possiamo quindi anche già sapere che le sta a cuore il tema della convivenza pacifica tra i popoli e che il suo linguaggio è fresco e sbarazzino; possiamo essere poco o tanto esperti di cinema da saper smascherare strizzatine d'occhi e trucchi narrativi, ma difficilmente tutto questo potrà bastare per resistere al fascino ammaliatore del continuo cambio di passo e di registro.

Ciò che in altri casi potrebbe sembrarci un "pasticciaccio" di generi accrocchiati alla meno peggio, qui dovrà per forza farci riflettere, perché l'"invenzione" di Nadine Labaki è bella e forte, ed è così semplice da non ammettere nessuna riserva. A lei la guerra non piace, e vi dimostrerà di essere disposta ad usare qualsiasi mezzo, convenzionale e ortodosso oppure no, per convincere anche voi, anche tutti, chiunque.
E' vero: per essere trascinati sul "terreno di gioco" prediletto da Nadine Labaki occorre forse avere qualche affinità con gli usi e i costumi tipici di certe latitudini, occorre forse avere occhio e orecchio per certe movenze e certi suoni, occorre essere avvezzi a certe "liturgie". Ma sarei pronto a scommettere che la danza funebre delle donne in lutto che vanno a far visita ai loro cari al cimitero del villaggio al secondo minuto del film, potrebbe avere qualche effetto anche su un abitante di Goteborg.
Se di musical si tratta, complimenti a Nadine che l'ha pensato così, perché in quella danza c'è molto di più, c'è il senso ancestrale del dolore, c'è la liturgia, c'è il rito del trapasso al termine del quale, se sai resistere come solo una donna sa fare, puoi trovare ancora una piccola luce ad aspettarti.

Scena iniziale film

Sui siti specializzati ho letto che Nadine Labaki è la capostipite di un cinema libanese praticamente inesistente. Ho la sensazione che molto presto quel cinema non avrà più molto da imparare; al contrario, credo che da quelle terre di conflitti, sfruttamento e sofferenza, potremo aspettarci qualche "interessante contributo" sul piano dei contenuti...

sabato 28 gennaio 2012

"Una Storia Vera" di David Lynch - a cura di Giuliana Ceralli



Una storia vera, film del 1999 diretto da David Lynch, ci presenta una trama lineare ed una sceneggiatura assai coinvolgente. Si basa su un fatto realmente accaduto, raccontando la storia di Alvin Straight, un contadino settantatreenne dell’Iowa (USA) che intraprende un lungo viaggio a bordo di un tagliaerba per andare a trovare il fratello reduce da un infarto.
Il protagonista vive con la figlia Rosie, che una sera riceve una telefonata: Lyle, il fratello di Alvin, con il quale le relazioni sono interrotte da parecchi anni, ha avuto un infarto e non sta affatto bene. Alvin decide così di andarlo a trovare e, dato che non può più guidare l’auto, intraprende il viaggio a bordo di una lenta motofalciatrice. Si attrezza con un rimorchio provvisto di una tenda ed alcuni oggetti necessari ad un uomo sul cui volto e portamento sono ben visibili fin dall’inizio i segni e i limiti dovuti all’età avanzata. Ma nel contempo appaiono subito allo spettatore una grande sensibilità, saggezza e determinazione. Alvin vorrà portare a termine da solo il suo viaggio e nello stesso modo in cui lo ha iniziato; egli stesso si definirà “un uomo testardo”. Queste caratteristiche del protagonista “colpiscono” emotivamente lo spettatore nel corso del film, in particolare nei dialoghi con le diverse persone che Alvin ha modo di conoscere durante il lungo itinerario, ma anche nei  suoi modi di organizzare la partenza e poi affrontare intoppi e difficoltà. Non a caso è frequente, durante la fruizione del film, il desiderio di annotare parecchie frasi significative pronunciate dal protagonista, il cui volto (anche in situazioni in cui l’anziano è solo) ci presenta costantemente sentimenti ed emozioni del presente, ma anche della sua lunga vita trascorsa. Emozioni spesso condivise con gli interlocutori; significativa è la conversazione sulla guerra che induce anche l’altro al racconto di esperienze inquietanti, mentre entrambi le rivivono e le fanno vivere allo spettatore, confermando anche in questo episodio come si assista, guardando Lynch, a un “cinema del sentire”. Anche nella scena finale in cui i due fratelli sono seduti vicini, i prolungati primi piani sui loro volti, lasciano trasparire le emozioni che entrambi condividono. E la prolungata inquadratura del tagliaerba alternata al volto di Lyle fa immaginare e “sentire” chiaramente allo spettatore cosa egli può provare e pensare vicino a un fratello che ha percorso tanta strada con un mezzo così lento per venirlo a trovare e fare finalmente pace; un viaggio tanto voluto quanto faticoso. Poche parole, ma un’empatia straordinaria fatta anche di sguardi e pianti trattenuti.
È così che la fruizione del film, favorita da una frequente lentezza della macchina da presa, innesca nello spettatore una molteplicità di emozioni, riflessioni, inquietudini, ricordi… legati anche ad alcuni temi ricorrenti o comunque frequenti nell’esistenza umana in generale.

Il viaggio richiede, in chi lo compie da solo e in condizioni non certo facili, una buona dose di coraggio e determinazione, talvolta sofferta, per giungere alla meta; ma anche tranquillità e saggezza, accettando ed affrontando gli ostacoli con serenità e abilità nel cogliere, a partire da situazioni inattese, l’opportunità di vivere brevi ma intense relazioni sociali con parecchie persone. Si tratta allora non solo di un viaggio inteso come spostamento fisico per raggiungere una meta, accompagnato da immagini di paesaggi solari e “immensi”, ma anche di un viaggio in cui si mettono in gioco incontri e scambi di umanità, ricordi piacevoli e dolorosi rivissuti emotivamente. Quasi un viaggio paragonato allo svolgersi dell’intera esistenza. Lo stesso Alvin afferma di essere in viaggio praticamente da tutta la vita. In questo viaggio e in questi incontri viene chiamato a mettersi in gioco anche lo spettatore; anch’egli vive empaticamente le situazioni del film, presenti o rievocate; in questo è aiutato dai suoni, dai movimenti lenti della telecamera, dalle lunghe pause degli interlocutori, dai primi piani su di essi, dalle immagini della natura e dalle inquadrature di elementi significativi, ad esempio l’afferraoggetti, il tagliaerba nella scena finale, il fuoco assai frequente durante le conversazioni notturne. Si può pensare anche al cielo stellato, ai campi sterminati e solari ma anche cieli plumbei che preannunciano un temporale.

La relazione tra fratelli è assai rilevante, considerando che il motivo del viaggio di Alvin è il desiderio di riconciliarsi col fratello Lyle, con cui i rapporti sono interrotti da dieci anni. Tuttavia, sembra dirci il regista attraverso le penetranti parole del protagonista, l’interruzione di una relazione non cancella il legame profondo e i ricordi di esperienze significative condivise da due fratelli. “Nessuno conosce la tua vita meglio di un fratello che ha quasi la tua età” dice Alvin ai due fratelli litigiosi dell’autorimessa, volendo comunicare anche a loro la peculiarità e l’empatia insita in questo specifico legame familiare.

Il dialogo tra Alvin e parecchie persone che incontra nel suo itinerario vede l’anziano protagonista portare in esso qualcosa di sé, della sua vita, della sua storia, con emozioni e riflessioni, passate e presenti. I frequenti primi piani sul protagonista, sul suo volto o comunque sugli interlocutori accrescono la connotazione altamente empatica delle scene.
Inoltre, in queste conversazioni spesso Alvin si inserisce con empatia e originalità espressiva (ad es. chiama la ragazza “principessa”) nella situazione e/o nella problematica dell’interlocutore, per indurre anch’esso ad una profonda riflessione, quasi come volesse “regalare” all’altro un po’ della sua saggezza.

Segue l’analisi di un dialogo, che ho scelto per la ricchezza dei temi e messaggi comunicativi affrontati e la strutturazione della scena con molti elementi che ne amplificano la dimensione empatica (ambiente notturno, fuoco, condivisione del cibo; ed anche primi piani prolungati, emozioni che traspaiono dai volti, lentezza della telecamera, frasi pronunciate lentamente e con numerose pause)

Analisi di una scena: l’incontro-dialogo con l’adolescente incinta.
Mentre Alvin procede sulla strada, un’automobile lo supera veloce e si vede in lontananza una persona che fa cenno di chiedere un passaggio. L’automobile sfreccia oltre ed Alvin si avvicina; poi, continuando a procedere con serenità e determinazione, si volta salutandola con un gesto della mano e guardandola con un sorriso. È ancora giorno, la strada e i campi vicini sono assolati. La ragazza, un’adolescente dall’abbigliamento sportivo con uno zaino sulle spalle, ricambia lo sguardo con freddezza; per alcuni secondi osserva l’anziano che viaggia e poi volge lo sguardo dalla parte opposta, dando la sensazione di estremo distacco dall’evento appena trascorso.

Poche ore dopo la scenografia, i colori, le immagini dell’ambiente sono profondamente cambiati; non più un paesaggio solare e un cielo azzurro sopra pianure sterminate, ma prato al buio, bosco vicino, il protagonista seduto e stanco che sta cuocendo salsicce sul fuoco.


Si avvicina esitante la ragazza di prima. È incerta nell’avanzare, non ha più l’atteggiamento duro e freddo di alcune ore prima. Alvin alza lo sguardo verso di lei con occhi di attento osservatore; la riconosce. La giovane, pronunciando le prime parole (“Non si è fermato nessuno…”) esprime col volto serio un bisogno di comunicare, una richiesta di aiuto. Dopo alcuni attimi di silenzio in cui Alvin riflette serio guardando in basso, egli le domanda se ha fame, generando un lieve sorriso sul volto della ragazza; sembra sentirsi accolta. Alvin le offre salsicce, che lei inizia a cuocere al fuoco e la conversazione procede con lunghe pause. Intanto la giovane posa uno sguardo disgustato sul mezzo di trasporto di Alvin e subito commenta: “Che schifo di rottame”. 
Allora il vecchio replica con saggezza, al tempo stesso simpatica e provocatoria, continuando la cottura al fuoco: “Pensa a mangiare, principessa”. Lo dice con un tono serio, tranquillo e deciso, ma “buono”, senza alcun sarcasmo o risentimento, quasi a voler dire cosa è importante in quel momento per una ragazza così sola di sera (mangiare, nutrirsi), tralasciando inutili giudizi sulle parole dispregiative appena udite.
Segue un lungo silenzio con primi piani prolungati su entrambi gli interlocutori ed anche sul fuoco scoppiettante.
La ragazza rompe il silenzio: “È da molto che sei in viaggio?”
“Beh, praticamente da tutta la vita”, risponde Alvin e anche qui più che attenersi allo stretto contenuto della domanda, sembra voler dare inizio a un dialogo più profondo; condividere anche con lo spettatore l’idea della vita intera intesa come viaggio: un viaggio che non è solo spostamento fisico verso terre lontane, ma pure tutta la storia personale “sentita”, ricordata, condivisa, raccontata.
Poi la conversazione procede sul tema della famiglia e Alvin, dopo aver accennato alla sua storia e situazione (quattordici figli di cui solo sette sopravvissuti dopo la nascita, la moglie morta undici anni fa), domanda: “Dov’è la tua famiglia?... Sei scappata di casa?... A che mese sei?” Solo a quest’ultima domanda la ragazza affronta la difficoltà del rispondere e dice: “Al quinto”. Allora Alvin comunica la destinazione del suo viaggio: andare a trovare il fratello a Mount Zion, nel Wisconsin. Dopo brevi battute divertenti sugli abitanti di questa località, i due riprendono seriamente. Alvin offre una coperta e dopo un lungo silenzio la ragazza rompe il ghiaccio proseguendo sul tema della famiglia.  
“La mia famiglia mi odia” dice “…e mi odieranno di più quando lo scopriranno”. Alvin la conforta sorridente, la aiuta, anche con ironia (sul proprio viaggio con quel particolare mezzo), a ridimensionare le sue convinzioni di adolescente: “… prima o poi accetteranno te e il tuo piccolo problema… Un letto caldo e un tetto sono comunque meglio che mangiare all’aperto insieme a un vecchio pazzo che viaggia su un tagliaerba”.
Segue poi il racconto degli eventi che hanno segnato profondamente la vita della figlia Rosie, una madre ferita per sempre da quando le assistenti sociali le hanno sottratto ingiustamente i figli. Una donna che “sa molto bene quello che conta veramente nella vita”. “Era una brava madre” dice ancora il padre, dando alla ragazza e coinvolgendo lo spettatore in altri messaggi di vita e saggezza. Momenti che ci rendono partecipi dell’inquietudine, della drammaticità di un racconto di vita; caratteristiche amplificate anche dal buio, dalle pause, suoni, immagini del volto sofferente di Rosie che piange nella notte pensando ai suoi figli che non può più vedere.
Il dialogo si conclude col racconto del mazzetto di bastoncini legati, simbolo della famiglia. Ed è proprio questo mazzetto che Alvin trova al mattino quando si sveglia, lasciato dalla ragazza che dimostra di aver compreso i messaggi profondi del vecchio; un dialogo vissuto con empatia, uno scambio di storie personali lascia una traccia, sembra volerci dire il regista anche con le immagini; e questo lei stessa vuole comunicare col suo gesto.
Nel dialogo descritto entrambi gli interlocutori portano molto di sé, della loro storia ed emozioni, in un’atmosfera che ne accresce la drammaticità e l’inquietudine, dove però c’è spazio anche per brevi momenti in cui si ride insieme e si vedono con ironia alcuni aspetti della realtà e del viaggio stesso del protagonista… a bordo di un tagliaerba, un mezzo senza dubbio molto strano per una destinazione così lontana. E in questo contesto lo spettatore non può che ritrovarsi pienamente coinvolto empaticamente; si tratta di un dialogo lento, ricco di primi piani sugli interlocutori, sui volti dai quali traspaiono pienamente emozioni e sentimenti, in un periodo della giornata (la notte) che induce alla riflessione. Vicino a un fuoco che non solo è importante per cuocere il cibo di cui saziarsi (un bisogno essenziale, come fa notare Alvin alla ragazza); ma anche un fuoco che accompagna e porta calore e vicinanza emotiva in una conversazione. Un fuoco che è presente, durante tutto il film, in molti altri momenti di solitudine del protagonista e di conversazione.
  
Gli incontri-dialoghi
  


ALVIN   Mi piace tanto guardare il temporale.

ROSIE   Anche a me, papà.





  

RAGAZZA   È da molto che sei in viaggio?



ALVIN   Beh, praticamente da tutta la vita.

  

DANNY   Ho pensato che potrei accompagnarti io fino a Mount Zion.

ALVIN    Ti ringrazio, ma voglio andare fino in fondo a modo mio.


ALVIN   Il vizio dell’alcol l’ho preso in guerra. Un prete mi ha aiutato a capire la ragione per cui bevevo: rivedevo continuamente tutto quello che avevo visto laggiù… È impossibile dimenticare.




ALVIN   Nessuno conosce la tua vita meglio di un fratello che ha quasi la tua età. Sa chi sei e cosa sei meglio di chiunque altro.



ALVIN  …È così vicino che sento già la sua presenza… Eravamo fratelli inseparabili da ragazzi…Guardavamo le stelle, il cielo.
[Poi] rabbia, vanità, mescolate insieme all’alcol… Ma ora non importa. Voglio fare pace. Voglio stare con lui, guardare le stelle.


LYLE   Hai fatto tanta strada con quel coso per venire da me?

ALVIN   Sì, Lyle.


 
IL CIELO STELLATO introduce e conclude il film. Quasi una comunicazione con la natura, l’infinito, che accompagna il legame dei due fratelli. Già quando erano ragazzi; ed ora, quando si rivedono e riprendono le relazioni.









lunedì 16 gennaio 2012

"Midnight in Paris" di Woody Allen - a cura di Rossella Carluccio

Apologia di una passione. Radiosa, emozionante e malinconica l’ultima produzione di Woody Allen. “Midnight in Paris” è quello che vuole essere, senza fraintendimenti. La consacrazione sullo schermo dell’amore che il regista newyorkese ha per la ville lumierè. Già in Tutti dicono I love you del 1996, si intravedono scorci della beata Parigi, ma qui il regista ritorna volutamente sui propri passi per realizzare quest’ultima opera, surreale, nostalgica ma anche effervescente, iconografica nel raccontare l’age d’or ed estemporanea nel ricorrere riflessioni sull’amore, le coppie e la vita.

Con una carrellata di cartoline animate, Allen ci indirizza sin da subito, già dalle prime scene a quello che lo spettatore ripercorrerà per tutto il film: la magia della città, tra i suoi boulevard, tra le acque limpide della Senna, ai piedi del Sacro Cuore, nelle sue piazze e tra i suoi cittadini.

Un incipit che non può che ricordare l’overture di Manhattan del 1978, film simbolo dove il regista innalza un tributo alla sua città natale. E se in Manhattan in rigoroso bianco e nero un monologo iniziale accompagna simbioticamente le scene presentate, in quest’ultimo Allen si affida solo ed esclusivamente ai colori, alla geometria, ai contorni di Parigi.


Una vera e propria dichiarazione d’intenti, un amore trasudato in ogni inquadratura. Parigi carica di storia in ogni sua grande monumento, Parigi fascinosa ed elegante in ogni nido di asfalto, Parigi ed il retaggio che si porta con sé fino ai giorni nostri.


Il film celebra anche il periodo d’oro quello degli anni 20, così tanto amata da scrittori, pittori e artisti, così amato da Gil, protagonista sognante del film, così amato da Allen stesso che fa incarnare al suo personaggio – Owen Wilson nella sua stonante allegoria naif - un percorso che avrebbe voluto intraprendere lui stesso.
Gil è a Parigi con Inez, sua futura moglie e i genitori di lei. Autore di sceneggiature hollywodiane, Gil è in verità un eterno sognatore e rincorre il sogno di scrivere opere impegnate, rifacendosi ai suoi idoli letterari come Scott Fitzgerald ed Ernest Hemingway. L’occhio da turista americano ricerca proprio tra le bellezze e lo splendore della vie en rose ogni sorta di ispirazione per il proprio romanzo, ancora incompiuto. Ma proprio in una passeggiata notturna una strana automobile d’epoca traghetterà il protagonista in una frizzante Parigi bohemien. Gil è così catapultato in un mondo finora solo letto o fantasticato: accompagnato da John Fitzgerald e dall’esuberante moglie Zelda si trova tra feste e girovaganti tour notturni, confrontandosi con Hemingway, ammirando opere ancora in produzione di Picasso, ascoltando le elucubrazioni di uno stravagante Salvador Dalì e frequentando quel tanto discusso e agognato salotto di Geltrude Stein.

Un salto che ricorda da vicino quello tanto surreale quanto incantevole raccontato ne La rosa purpurea del Cairo del 1985: Mia Farrow dà qui il volto a  Cecilia barista avvilita e dismessa  da una vita al quanto grama che trova come unica valvola di sfogo l’andare al cinema ad ammirare il suo film preferito, La Rosa purpurea del Cairo per l’appunto. Ma la sua vita cambia quando Tom, attore in bianco e nero protagonista del film, esce dallo schermo per incontrarla nella sua realtà.


Anche in questo caso il divario tra idoli e comuni mortali si assottiglia: come nei protagonisti della Rosa Purpurea del Cairo, anche gli artisti di Midnight in Paris esteriorizzano difetti, vizi e lacune e vengono posti sullo stesso piano dei protagonisti, un piano più umano e leggibile.
I protagonisti alleniani, d'altronde, si ritrovano loro malgrado a scontrarsi sempre con le loro forbite meditazioni, districando rapporti sentimentali disconessi, scambiandosi reciproci ipotesi e teorie sui desideri della vita, sulle dinamiche di coppia, e vivendo costantemente nei loro stessi dialoghi, e così poco nella realtà.

Così anche qui è surreale e onirico l’amore di Gil per Adriana, sensuale e ammaliatrice, musa ispiratrice di Picasso e Modigliani, personificata da una splendida Marion Cottilard. Lei è la compagna femminile del suo viaggio nel tempo e l’inconsapevole dispensatrice del messaggio ultimo a cui vuole approdare l’opera: come Gil, infatti, è un outsider dei suoi tempi prediligendo l’epoca bohemien, così Adriana è affascinata della belle epoque parigina anziché dal suo presente. Una scelta e un amore che non può trovare un riscontro nella realtà ma solo nel sogno.
Il non voler accettare questo presente, sempre così scontato, inadeguato, noioso, banale, ricercando – e su questo Allen fa riflettere bene – un passato che ci sembra sempre migliore, più interessante ed elettrizzante è l’idea cardine su cui si basa il film.
Ogni persona in ogni epoca sospira i tempi andati, in una malinconica corsa contro il tempo passato, come se fosse la via d’uscita per accettare ciò che il presente è, come per esorcizzare tutta la paura, la carenza, e i fallimenti quotidiani. Non ci si accorge che anche vivendo nel passato sembra migliore sempre il periodo precedente, in un circolo vizioso che sembra non finire mai. Ma nulla può consentirci di fuggire da noi stessi e dal nostro tempo e forse – sottolinea Allen – è meglio così. Da buona commedia, “Midnight in Paris” ha l’happy ending  sempre dietro l’angolo, lasciando allo spettatore ultimi spasmi del sogno malinconico di una Parigi che può tutto.