Diciamo subito quello che a molti interessa: è un bel film ? Risposta: assolutamente sì.
Perché poi sia un bel film è faccenda più complicata. Si sa, infatti, che ognuno legge le immagini e le storie a modo suo e le re-intepreta secondo il proprio vissuto.
Proviamo a dipanare questa matassa sintetizzando in poche parole il nostro film: le vite di un uomo – Alì – e una donna – Stephane – si incrociano. Ognuno martoriato nel corpo o nello spirito troverà con l’aiuto dell’altro di trovare il prioprio riscatto.
Questo ad una lettura volutamente banale. Ma in realtà le cose sono un poco più complicate e, sorprendentemente, nel film della Audiard c’è un protagonista invisibile attraverso il quale lo spettatore troverà il fil rouge della storia: l’acqua.
Un concetto polisemico. L’acqua come metafora della vita stessa, brodo primoridiale in cui tutti viviamo e l’acqua come elemento purificatore e rigenerante.
“Sapore di ruggine e ossa”, può essere quindi riassunto più compiutamente così: E’ un film sul battesimo, l’epifania di uomini e donne che si trovano, per i casi della vita, di fronte ad un bivio: affogare e lasciarsi trascinare a fondo dalla vita o riemergere, accettare il cambiamento e viverlo da protagonisti ?
Quella che ci viene mostrata però è un’acqua sporca, torbida, attraverso la quale è diffcile vedere (si guardi ad esempio l’incipit del film o la scena dell’incidente alla protagonista o, ancora, la scena finale in cui il bambino cade nel lago). Nulla è trasparente e i brandelli di carne, i rifiuti di materiale organico, che galleggiano sospesi sono parte integrante dell’elemento.
Bellissimi gli stacchi dove alla narrazione del film si sostituiscono immagini astratte di liquidi in bollore, oggetti in galleggiamento. Immagini apparentemente slegate dal contesto filmico ma, in realtà fil rouge sostanziali.
Nella rappresentazione filmica noi spettatori, così come i protagonisti, non vediamo bene, non siamo messi grado di scindere il bene dal male, non siamo abilitati a giudicare e non esiste un Dio che ci possa salvare di sua iniziativa. E’ l’umanità, il singolo che deve trovare la propria strada e tornare a riva dal pantano immobile che tutto accomuna: “No Guru, no Method, no Teacher” cantava Van Morrison.
Il male viene dall’acqua (l’orca che dilania le gambe di Stephane, il lago che inghiotte Sam, il figlio di Alì) come allo stesso modo dall’acqua viene il bene .L’acqua, in tutte le sue forme – acqua di mare, di piscina, acqua ghiacciata, neve, pioggia - è come il richiamo delle sirene di Ulisse e tutti ne sono attratti. Nessuno riesce a starne distante e sente il bisogno di immergersi. Ci si immerge per vivere. Non è un caso che la prima cosa che fa la protagonista dopo l’incidente in piscina sia proprio quella di tornare a bagnarsi in mare.
La sporcizia, il male di vivere, che abbiamo addosso però non viene lavata via; l’acqua, proprio perché sporca e stagnante anch’essa, non può ripulire le persone che continuano a bagnarsi nel torbido. E tutto questo con buona pace di Eraclito quando scrisse “Tutto scorre. Il fiume in cui entrano è lo stesso, ma sempre altre sono le acque in cui ci bagniiamo” (Diels-Kranz, fr. 12)..
In questa acqua non possiamo neanche specchiarci per vedere cosa siamo diventati. Così finisce che ognuno si costruisce la sua epitome personale, la sua weltanschauung privata.
Per capire cosa siamo realmente abbiamo bisogno dell’aiuto di una persona esterna e, quindi, lentamente – come è dolce e lento il film nel suo andare – la regia innesta il tema dell’amicizia, che diventa amore salvifico nel finale, tra Alì e Stephane: se nessuno può specchiarsi da solo, se nessuno può sapere in autonomia cosa è, allora serve l’aiuto di qualcuno altro rispetto a noi.
Dove l’acqua non è specchio lo diventano le altre persone o, per meglio dire, le vicende dolorose delle altre persone. Non è un film sulla catarsi, si badi bene: Stephane, nella relazione con Alì, scopre se stessa e non sublima solo il suo mal di vivere nei drammi di Alì. Non siamo di fronte a un “mal comune, mezzo gaudio” in cui si vive insieme come stampelle reciproche (vere o finte che siano).
Tutto evolve con un ritmo lento (ma non pretestuoso), in un tempo sospeso e in un mondo ingessato con i protagonisti immobili: nessuno si aspetta nulla proprio perché nulla può accadere. Questo è ben puntualizzato dal distacco che la camera mantiene con gli attori; mai in soggettiva perché non si vuole dare allo spettatore nessuna chiave di lettura precostituita, non si vuole avvalorare alcuna tesi. Le riprese sono “sporche” nei loro finti sobbalzare da filmino famigliare. I colori non sono mai forti e definiti (ma che belli!) neanche nelle giornate di sole passate in riva al mare da Stephane e Alì. Non esiste estate o inverno, pioggia o sole, ma solo giorni tutti uguali e indistinti.
Nella loro quotidianità le storie dei personaggi, prese ognuna per sé, sono banali e insignificanti. Stephane è una donna insofferente della vita, in cerca della propria strada. Alì, che sa dialogare solo con i pugni, una strada non l’ha mai avuta e probabilmente non l’ha mai cercata. La sorella e il cognato di Alì sono persone incolori, indefinite che vivono alla giornata.
I dialoghi, costruiti ad arte, sono funzionali a tutto questo: le domande quindi esigono risposte puntuali o addirittura non risposte (“mi hanno appena licenziato per causa tua e tu non hai nulla da dire?”). In realtà addirittura i quesìti stessi non sono domande ma poco più che scambi di informazioni in un mondo che non sa dialogare.
In questa situazione disastrata e apparentemente senza speranza la Audiard crea una rappresentazione che culmina in una bellissima storia di Amore; l’Amore per se stessi, la solidarietà per gli amici, il rispetto per il proprio compagno/a.
Come abbiamo detto è un film bello, intenso, drammatico e quando al termine si accengono le luci scopriamo di avere avuto la possibilità di meditare anche un po’ su noi stessi.
Se tutto questo vi pare poco non andate a vederlo, altrimenti non perdetevi l’opportunità che la Audiard ci regala.
Nessun commento:
Posta un commento