AmicoHarvey Film

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venerdì 23 dicembre 2011

"Soy Cuba” di Mikhail Kalatozov - a cura di Luigi Mezzacappa

Miniatura


Soy Cuba, solo una stranissima storia


Questo non è esattamente un saggio, e nemmeno una recensione, almeno nell'accezione più comune del termine. Questa è una storia esemplare di un film esemplare, e di ciò che può accadere a un film  quando "casca male", nel tempo, nel modo e sì, anche nel luogo.
E' la storia di "Soy Cuba".
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“Soy Cuba” è il film che Mikhail Kalatozov girò su Cuba, a Cuba, nel 1963. L’idea che il regista russo pose alla base del film è rivelata già nel titolo: a raccontare la sua anima e la sua Storia sarà la stessa terra di Cuba, in prima persona. E lo farà “liricamente”.
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Il racconto è organizzato in un prologo e quattro storie. All’inizio di ognuna, una voce femminile sottolinea la distanza tra la struggente bellezza dell’isola e la disperazione dei suoi abitanti. Sulla scia del più classico cinema cubano, il film spiega se stesso: la voce accompagna lo sguardo sulla miseria e sulle dignità calpestate contrapponendole allo sfarzo e alla voluttà, la sola immagine di Cuba fino ad allora raccontata al resto del mondo.
Dopo averci mostrato la primitiva bellezza dell’isola, la macchina da presa ci accompagna nei luoghi delle dolorose contraddizioni e scorriamo, come fossero in vetrina, le immagini della dissolutezza della borghesia.

Kalatozov utilizzò pellicole militari all’infrarosso per esaltare il contrasto delle immagini al limite delle possibilità tecnologiche dell’epoca. Abituato a disporre di grandi risorse, lavorò duro per 14 mesi, chiese e ottenne uno straordinario dispiegamento di mezzi e girò tantissime volte le stesse scene per raggiungere la perfezione, convinto com’era di costruire un’opera epica.
“Soy Cuba” è ritenuto da molti un film strepitoso, capace di influenzare la poetica dei registi che ne entrano in contatto; alcune scene sono considerate tra le più belle della storia del cinema di tutti i tempi. Ciò che colpisce sono l'altissima qualità tecnica della fotografia di Uruševskij, la complessità dei movimenti di macchina e i lunghissimi piani sequenza che ci lasciano letteralmente senza fiato, vere e proprie acrobazie rese possibili da autentiche opere di ingegneria.
Il periodo storico della narrazione si colloca a cavallo dell'avvento della Rivoluzione che all'alba del 1° gennaio del 1959 portò Fidel Castro al governo di una Cuba liberata dalla presenza americana e dal suo “guardiano” Batista.
In seguito alle nazionalizzazioni attuate dal governo rivoluzionario che riacquistò a prezzi politici le proprietà straniere dell'isola, gli Stati Uniti imposero un embargo commerciale - in atto ancora oggi - con l'obiettivo di prostrare l'economia del nuovo corso e il sostegno della popolazione. La difficoltà in cui versò il nascente Stato cubano in seguito a queste misure indusse la Russia di Nikita Kruscev ad avvicinarsi alle vicende dell’isola.
Seguì un periodo di grande tensione politica a livello mondiale, in piena guerra fredda: gli Stati Uniti iniziarono una lunghissima serie di tentativi di rovesciamento del governo cubano (la fallita invasione della Baia dei Porci è certamente il più noto), e la Russia installò basi militari per riequilibrare lo scacchiere nucleare pesantemente sbilanciato dallo strapotere degli Stati Uniti che già schieravano missili in Europa. La "crisi dei missili" fu risolta da Kruscev, che decise di ritirarli in cambio di una pubblica dichiarazione di Kennedy di non invadere l'isola.
Sul versante interno, il governo rivoluzionario era ansioso di attuare e mostrare al mondo un socialismo dal volto umano, attento anche alle espressioni dell’arte. Fu istituito l'Icaic (Instituto Cubano del Arte e Industria Cinematograficas) in cui iniziarono a lavorare molti registi e tecnici anche vicini al neorealismo italiano per aver studiato al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, e il cinema cubano  s’impose in molte competizioni internazionali. Uno dei maggiori esponenti di quel periodo fu Tomas Gutierrez Aléa, detto "Titòn" che - per inciso - realizzò anche film molto critici nei confronti della nuova società cubana.
L’interesse dei sovietici nei confronti di Cuba si manifestò quindi anche nella cultura, attratti dal fascino di quello “strano” popolo solare e di uno spirito rivoluzionario che appariva molto lontano dal rigore della loro esperienza. In un clima di fervore e curiosità, molti intellettuali e registi russi “sbarcarono” a Cuba con il desiderio di “omaggiare” la Rivoluzione.
Gli strumenti culturali che i russi utilizzarono furono fatalmente quelli del loro repertorio cinematografico dell’epoca: l’idealizzazione e la stilizzazione.
Il cinema sovietico degli anni ’60 fu sicuramente altra cosa rispetto al “realismo socialista” di trent’anni prima, ma non è del tutto inutile ricordare quali siano state le sue radici, anche a costo di eccessive semplificazioni.
Il realismo socialista fu introdotto dal Congresso degli scrittori sovietici intorno alla metà degli anni '30 come “principio estetico” di unificazione degli stili artistici, finalizzato a veicolare in modo coerente le dottrine dello Stato. Le quali dottrine vennero fatte rispettare anche con la repressione che non risparmiò gli artisti.
I temi ricorrenti erano la lotta di classe, l'alleanza fra contadini e operai, la storia del movimento operaio e la vita dei lavoratori, tutto ‘elargito’ senza risparmio di retorica. Un ossequio ossessivo e monocorde al "principio", senza alcuna digressione per altre forme e modalità espressive che, ancorché ‘guidate’, avrebbero potuto se non altro preservare la vitalità e la creatività degli artisti.
La Russia dovette attendere la morte di Stalin e l’avvento di Kruscev per respirare una nuova ventata di rinascimento culturale che allentasse le strutture narrative del realismo socialista. "Quando volano le cicogne" del 1957, proprio di Kalatozov, è esemplare del ritrovato umanitarismo: il regista non fa ricorso alle retoriche e alle icone tipiche del realismo socialista e forse proprio per questo il suo capolavoro fu insignito della Palma d'oro al Festival di Cannes del 1958.
Ma al di là dei suoi formalismi, quello sovietico era comunque un cinema di qualità, come dimostra il riconoscimento di miglior film di tutti i tempi conferito nel 1958 dai critici di tutto il mondo a "La corazzata Potemkin", massima espressione del realismo socialista di trent’anni prima.
Nel periodo, così denso di eventi e nuove tendenze, di tensioni fra occidente e blocco sovietico, di tentativi dei Paesi dell'Europa orientale di affrancarsi dal giogo di Mosca e dei Paesi del Terzo Mondo di affermare la propria identità, di ingerenze internazionali, repressioni e conflitti pilotati, il cinema assunse fatalmente un inedito connotato politico.
Guidati dalle nuove aspirazioni del Continente, i registi latinoamericani cercarono un contatto più immediato con il pubblico. A Cuba, la sperimentazione e l'intrattenimento si fusero in nuovi formalismi, ma nonostante l'amicizia con Mosca, gli artisti non abbracciarono mai il realismo socialista e rimasero aperti alle più diverse influenze anche quando il rigore della retorica si ammorbidì.
Come accennato, i film dei registi cubani di quegli anni portavano spesso l'impronta del neorealismo italiano, ma non si limitavano a “scimmiottarlo”: oltre a esplorare il territorio della politica, intervennero anche sulle tecniche e sul linguaggio per rendere il cinema accessibile a un pubblico più vasto.
L'ICAIC promosse una sperimentazione di grande effetto divulgativo che demistificava il processo cinematografico attraverso la rivelazione dei "trucchi" del linguaggio e dell'ipnosi filmica. I cineasti cubani sapevano ricorrere a stilemi innovativi, ma avevano il merito di usarli sempre in modo semplice e chiaro, a differenza di quanto avveniva con la maggior parte dei registi europei. Lo stile documentaristico e il commento fuori campo aiutavano il pubblico a comprendere e decodificare anche le tecniche visive più audaci, come "La muerte de un burocrata", sempre di Gutierrez Alea del 1966, esemplifica alla perfezione.
Verso la metà degli anni ‘70, il cinema cubano era rispettato in tutto il mondo: mentre i film delle avanguardie sudamericane ebbero successo principalmente presso un pubblico d'elite, quelli Cubani dimostrarono che il cinema del Terzo Mondo sapeva coniugare le convenzioni del cinema moderno con forme narrative più semplici per gli spettatori.

Siamo all'Avana, è il 1958 e manca un anno al trionfo della Rivoluzione. La giovane Maria, fidanzata con un venditore ambulante, si offre a un gruppo di affaristi americani avventori di un night. Verrà scoperta dal suo ragazzo, e l'Americano che trascorrerà la notte in casa sua al mattino si sveglierà, sconvolto dalla povertà in cui si scopre immerso, e fuggirà sgomento, braccato dalla voce narrante che già conosciamo.
Uno straordinario uso del grandangolo ci regala meravigliosi scorci di natura e scava nelle rughe dei volti della miseria rivelandocene la dignità. Con una nuova serie di sequenze liriche, Kalatozov ci svela l'intera esistenza di Pedro, il colono di una piantagione di canna da zucchero. Scorrono davanti ai suoi e ai nostri occhi il tempo della speranza, il matrimonio, la nascita dei figli; poi il tempo del dolore per la morte della moglie; quindi il tempo del lavoro, quando invocherà buoni raccolti per il futuro dei suoi figli; e infine, il tempo della disperazione, quando scoprirà di essere stato abbandonato dal padrone che ha venduto la terra a una compagnia americana, e incendierà la piantagione.
Lo studente Enrique si ribella, e attraverso scene di “ordinario sopruso” dell’imperialismo americano assistiamo alla sua presa di coscienza che lo porterà a progettare l’assassinio del capo della Polizia di Batista anche contro il volere dei suoi compagni di lotta. Il progetto non verrà realizzato per pietà umana, perché Enrique non saprà colpire il carnefice davanti agli occhi dei suoi familiari.
Ma in seguito all'uccisione di un suo compagno durante una manifestazione, Enrique deciderà di immolarsi procurandosi la morte proprio per mano di colui che poche ore prima aveva risparmiato.

Eccolo il secondo dei due grandiosi piani sequenza: per partecipare al funerale di Enrique, la macchina da presa sembra librarsi nel cielo dell’Avana come una metafora angelica del sogno dell’utopia socialista oppure, al di là della condivisione o meno della causa cubana, come inconfutabile atto d'amore per il cinema.
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Va detto ad ogni buon conto che non è la trama delle storie che ci farà ricordare questo film: la ragazza che si prostituisce, la presa di coscienza dello studente Enrique, il contadino vittima della disperazione e quello, tralasciato per ragioni di tempo, che si associa alla rivolta, sono stratagemmi narrativi abbastanza scontati e fin'anche leziosi, una rappresentazione forse anche troppo retorica della realtà cubana.
Ma tant’è: questo era il “repertorio” del cinema russo, e queste furono le scelte di Kalatozov e Uruševskij, in parte certo anche suggestionate dal poeta Evtušenko, co-autore della sceneggiatura.
Nonostante l’impegno, l’attenzione maniacale nella realizzazione e una lavorazione lunga e faticosa, il film fu un vero e proprio fiasco. Un flop, come si direbbe oggi.
“Soy Cuba” doveva suggellare l’amicizia tra Russia e Cuba, ma dopo una sola settimana di proiezione in contemporanea nelle sale di Mosca e dell'Avana, venne ritirato e nascosto nel dimenticatoio.
Ai Cubani non piacque il tono melodrammatico della voce fuori campo che fu scambiato per commiserazione. Il film fu considerato inadatto a raccontare la nascita della Rivoluzione e i Cubani arrivarono addirittura a ribattezzarlo “No Soy Cuba”. I tempi dilatati rispecchiavano un cinema che i Cubani non sentivano come proprio: troppo “calcolato” per il loro temperamento. Non si identificarono in quella visione romantica della Rivoluzione che per loro ebbe ragioni più forti di un semplice fatto idealistico. La ricerca quasi maniacale per il dettaglio e l'eccessiva cura per la fotografia devono aver finito per schiacciare i contenuti e dare un’immagine della rivoluzione troppo “leccata” per la sensibilità dei Cubani.
Ma il film non piacque neanche a Mosca perché i Russi non potevano sopportare di vedere la dissolutezza degli Americani neanche un minuto e neanche in un film. Inoltre, non riuscirono proprio a comprendere quello “strano socialismo”, così poco “ortodosso”.
Qualche decennio più tardi, nel 1995, il film fu riscoperto da Martin Scorsese e Francis Ford Coppola, che dopo averlo fatto restaurare lo riproposero al pubblico. Grazie a loro, fu rivalutato nei primi anni ’90 e innalzato al rango di opera suprema: Scorsese lo esaltò affermando che se lo avesse visto agli inizi della sua carriera sarebbe stato un regista diverso.
Non basterebbe un trattato, figuriamoci un breve saggio, per capire se la ragione dello strano destino di questo film sia più di natura artistica o politica. Chissà se il suo iniziale flop e la sua successiva esaltazione sono dipesi più dalla inattualità dei canoni artistici o dal fatto che poi, con la caduta del muro e l'archiviazione della guerra fredda, sia venuta meno la diffidenza occidentale verso un modo diverso di pensare la società, e oggi siamo al punto che quelle vicende possono tranquillamente tornare a essere raccontate, magari proprio per confortare la convinzione che esista un solo stile di vita accettabile, e quello è, ovviamente, il nostro.
Ma ciò che più di qualsiasi altra cosa risulta inspiegabile, è che quando il film trovò finalmente la sua gloria, nessuno dei membri della troupe e degli attori che vi parteciparono riuscì a credere di essere stato parte di un capolavoro.
Il regista brasiliano Vicente Ferraz, nel suo documentario "Il mammuth siberiano" del 2005, racconta molto bene il suo stupore e quello dei protagonisti, alcuni dei quali addirittura sospettosi di essere presi in giro.

Strana, stranissima storia: un film omaggiato da un popolo amico racconta e incensa il trionfo e la vittoria sullo straniero, ma il film non piace al popolo omaggiato.

Eppure il film non doveva essere così male se 30 anni dopo, riscoperto quasi per caso, è stato poi incensato anch'esso.
Non c'è niente da fare, delle due una: o si è trattato di irriconoscenza, oppure la distanza tra i due popoli - in termini artistici e forse anche politici - era molto più grande rispetto a quanto essi stessi credevano.

E se davvero così fosse, potremo mai rimproverarci abbastanza - noi del Primo Mondo - per aver costretto in "atmosfera controllata" la conduzione di un esperimento che avrebbe potuto esserci molto utile, per non avergli permesso di svolgersi in modo naturale?

venerdì 16 dicembre 2011

Melancholia di Lars von Trier - a cura di Mario D'Almo

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Kirsten Dunst: Justine       Charlotte Gainsbourg: Claire
Kiefer Sutherland: John           Alexander Skarsgård: Michael
Charlotte Rampling: Gaby        John Hurt: Dexter       
Stellan Skarsgård: Jack         Brady Corbet: Leo       
Udo Kier: Wedding planner         Jesper Christensen: Little Father

        “La vita è solo sulla Terra, e non per molto!”. Sentenzia Justine(Kirsten Dunst), chiarendo subito che la fine è vicina.     
      
       Justine si è appena sposata. Arriva con il marito alla festa delle nozze che il cognato (Kiefer Sutherland) e la sorella Claire(Charlotte Gainsbourg) le hanno organizzato in grande stile in una meravigliosa villa con tanto di campo da golf annesso. Tutto sembra perfetto, gli invitati, i parenti e un maestro di cerimonie (Udo Kier) chiamato per l’occasione. L’apparente allegria di Justine comincia presto a trasformarsi in una profonda apatia e un disagio profondo che la spingerà a perdere progressivamente interesse per i festeggiamenti allontanandosi in più occasioni. Questa forma di lento distacco da ciò che le capita intorno appare collegata, in qualche modo, all’avvicinarsi alla Terra di un pianeta misterioso: Melancholia. Apparentemente non c’è alcuna relazione, al momento il pianeta non sembra rappresentare una minaccia per gli esseri umani, ma qualcosa non va. Melancholia si avvicina, si nasconde, cambia traiettoria e, benché il mondo scientifico inviti all'ottimismo, ritenendo il rischio di collisione un’ipotesi remota, Justine appare turbata.

L’opera si presenta, come di consueto per Von Trier, suddivisa in capitoli e fa parte di una ideale trilogia sulla depressione per la quale non esiste consequenzialità narrativa ma soltanto di forma e tema di base. Questo secondo episodio segue il discusso Antichrist di due anni fa.

Il film comincia con un prologo, una forma filmica molto simile a quella già utilizzata per Antichrist: una introduzione visiva di glacialità pittorica e realismo emotivo. Le immagini estremamente rallentate, quasi ferme, sono avvolte in una luce notturna irreale e uno spazio onirico e metafisico, bellissimo ed inquietante, puntellato dal wagneriano (“Tristano e Isotta”). Un film nel film quasi autoconsistente che rende comprensibile lo stato d’animo della protagonista e chiarisce, sin dall'inizio, che la fine è inevitabile. Dopo il prologo di alta qualità simbolica ed estetica, comincia una bipartizione che vede protagoniste le due sorelle (prima Justine e poi Claire). In questa atmosfera surreale la prima parte, dedicata a Justine, vero alter ego del regista, appare all’inizio allegra mentre raggiunge in limousine la villa del ricevimento ma coglie rapidamente l’inadeguatezza della situazione. Di forte impatto simbolico è la scena dell'auto degli sposi, che resta bloccata in una curva del viottolo che porta alla villa di campagna in cui li si attende per i festeggiamenti. Il dramma si va rapidamente configurando e le “infrastrutture” formali e le convenzioni sociali mostrano la loro fragilità ed insulsaggine. Nella seconda parte Claire rappresenta quello che Von Trier vorrebbe essere ma non riesce, Claire cerca conservare il senso delle cose e di preservare l’esistente con una sorta di tragico contegno che cerca di conservare anche quando alcuni strani eventi atmosferici annunciano la fine imminente. Durante la festa le due donne sono circondate da una folla vinterberghiana (Festen), ritrovando parte degli stilemi del Dogma, ma alla fine, quando il dramma si compie, resteranno sole.

Inizialmente è Claire l’unica che cerca di sostenere la sorella, richiamandola ai propri doveri, assistendola e cercando di "mettere ordine", vuole controllare anche l'ineluttabile, ma non appena appare inevitabile lo scontro tra la Terra e il pianeta Melancholia, le parti si invertono. La depressa Justine, forse perché da sempre consapevole della tragedia affronta le cose in modo calmo e consapevole, aiutando sorella e nipote. Il film finisce con Justine e il nipote Leo che costruiscono con dei paletti di legno un rifugio immaginario (la "grotta magica"), aspettando la collisione imminente. I tre vi entrano e si tengono per mano, mentre Melancholia colpisce la Terra, distruggendola.
E’ la fine di tutto, anche se alcune immagini possono far pensare ad un disegno superiore, ad una rinascita catartica, come in 2001 Odissea nello spazio, altro film impregnato di pessimismo escatologico.
 Ma per Von Trier esplicitare questa possibilità sarebbe stato andare “fuori tema”, rovinare l’autoanalisi psicanalitica che sta portando avanti nei suoi ultimi film.
Il regista ci dice che la sua depressione non è malattia ma consapevolezza, è visione d’insieme e che, come da lui stesso dichiarato in una intervista: “nelle situazioni disperate i depressi tendono a restare più calmi delle persone normali, perché si aspettano sempre il peggio! Ma anche perché non hanno niente da perdere”.

Il film capovolge il paradigma del cinema catastrofico. La fine del mondo non è causata da un attacco da una forza aliena o la conseguenza dello scontro con un asteroide che funge da proiettile distruttore.
La vita è solo sulla terra, siamo soli nell'universo, ma non per questo siamo importanti.
Melancholia è il nome di un asteroide, scoperto nel 1977, della fascia principale del sistema solare. Invertendo le proporzioni, Von Trier gioca con questo concetto, facendo per una volta fare la parte dell'asteroide al nostro pianeta.
In Melancholia la fine del mondo non avviene accidentalmente. Il nostro Mondo, la Terra partecipa soltanto all'impietoso gioco di sponde dell’universo dopo il Big Bang. Nello scontro non ci sono attaccanti ed attaccati, l'impatto è comunque un'inevitabile "tragedia". E’ la fine della Storia e del mondo. A proposito della fine della Storia Baricco scrisse parlando dell’11 settembre: “C'è un'ipertrofia irragionevole di esattezza simbolica, di purezza del gesto, di spettacolarità, di immaginazione.”

Melancholia è un pianeta ipnotico e bellissimo. Sta per distruggere la Terra eppure non si può non rimanerne affascinati. Eppure è la fine di tutto e mette alla gogna la possibilità del controllo, sia sociale (il matrimonio) che scientifico (i calcoli del cognato).

Ma Melancholia è anche il modo in cui gli antichi definivano la depressione, o meglio quello stato di consapevolezza dolorosa che rappresenta un peso dell’anima. Il pittore Albrecht Dürer nella sua Melencolia aveva disegnato simboli che, anche incompresi, sono evocativi: Ritrae una figura alata seduta con aria imbronciata davanti ad una costruzione di pietra circondata da strani oggetti, simboli appartenenti al mondo dell'alchimia: una bilancia, un cane scheletrico, attrezzi da falegname, una clessidra, un solido geometrico (un "troncato romboedrico" o "poliedro Dürer"), un putto, una campana, un coltello, una scala a pioli. L'opera, simbolicamente rappresenta, in termini alchemici, le difficoltà che si incontrano nel tentativo di tramutare il piombo (anime delle tenebre) in oro (anime che risplendono).
Secondo la tradizione astrologica l'ambito alchemico era dominato dal pianeta Saturno ed era legato al sentimento della malinconia.
La parola deriva dal latino melancholia, che a sua volta trae origine dal greco melancholía, composto di mélas, mélanos (nero), e cholé (bile), quindi bile nera, uno dei quattro umori dalle cui combinazioni dipendono, secondo la medicina greca e romana, il carattere e gli stati d'animo delle persone.

Numerosi sono i riferimenti artistici disseminati nel film, oltre al meraviglioso preludio del Tristano e Isotta di Wagner. Le immagini richiamano molte opere pittoriche da Pieter Brughel del quale viene “animato” Il Ritorno Dei Cacciatori a Caravaggio, da Millais a De Chirico.
il regista danese getta un ponte (più o meno conscio) con Maestri del Cinema come Andrej Tarkovskij e Ingmar Bergman.
Il film rende omaggio inoltre al personaggio di Ofelia, aristocratica danese dell’Amleto di  Shakespeare. La locandina del film, nonché una scena dell'introduzione, mostrano l'attrice Kirsten Dunst lasciarsi trasportare dal fiume proprio come Ofelia nel dipinto di John Everett Millais del 1852. In seguito, durante la prima parte dedicata a Justine, la protagonista apre i libri di arte nella biblioteca del cognato e mette in mostra proprio il dipinto di Millais. Ofelia ha nella tragedia è quello della vittima degli eventi. L’immagine di Millais ma anche quella di John William Waterhouse, diventano per Von Trier uno stilema estetico narrativo a cui fa spesso riferimento  per rappresentare l’impotenza di fronte agli eventi.

“I’ll now count from one to ten…” in Europa, film bellissimo ed innovativo, dello stesso Von Trier, la voce narrante di Max Von Sidow inizia (e chiude) il film con una ipnosi collettiva, contando  da uno a dieci. Nel video presente in pagina, il conteggio viene riportato sia per sottolineare la componente onirica e di autoanalisi dei film di Von Trier, che come riferimento ai punti fondamentali identificati in ambito di analisi critica.
“one” l’immagine immobile e allucinata del giardino della casa, con tanto di inutile clessidra che segna due ore, simbolica rappresentazione di estraniamento e dell’inadeguatezza delle convenzioni. Richiama le opere di De Chirico come “Piazza d’Italia”.
“two” la sposa legata e trattenuta che riesce a  muoversi a stento. Una sinfonia meccanica, indice immaginifico di quel che sarà, sposa prigioniera. Richiama ad un’altra rappresentazione di Ofelia ritratta da John William Waterhouse.
“three” il richiamo più diretto ed evidente al personaggio di Ofelia nella rappresentazione di Millais. La maggiore differenza è che viene rappresentata di fronte, e non di lato, in quanto più allineata alla rappresentazione semantica del regista, già utilizzata in altri film, e a cui indirettamente richiama.
“four”e a cui si fa riferimento nelle immagini che confrontano simili inquadrature tratte da Antichrist, Medea e Dogville.
“five” Antichrist ha una forma filmica molto simile, con un “prologo” sottolineato dalla musica di Haendel, e racchiude le peggiori ossessioni del regista.
“six” Bergman è una figura importante per Von Trier, il quale ha più volte sottolineato il suo attaccamento al regista svedese. La trama di Antichrist richiama in modo evidente “L’ora del Lupo” di Bergman.
“seven” il cinema catastrofico Hollywoodiano, pur rappresentando temi simili è molto lontano. Nessuna scena di isteria di massa ma solo un’intima riflessione sui tre protagonisti e sul loro senso della storia.
“eight” 2001 Odissea nello spazio. L’essere umano è ben lungi dal rappresentare uno stadio di perfezione evolutiva. La fine dell’Uomo è funzionale allo sviluppo evolutivo.
 “nine” le convenzioni sociali si frantumano e perdono di significato man mano che Justine intuisce l’avvicinarsi della fine. La festa di matrimonio continua, ma qualcosa lentamente cambia.
“ten” il sogno finisce e siamo in Europa, nel giorno della presentazione al Festival di Cannes del film.
Lars Von Trier ha ormai abituato la critica ed il pubblico con le sue strategie di NON-marketing, e anche stavolta se ne è uscito con esternazioni ridicole sul suo essere ebreo mancato e nazista rivelato, ha insultato la regista Susanne Bier e Israele e ha chiuso con una frase : “Sì, Hitler mi fa un po' simpatia e lo capisco". Spiazzando tutti, attori inclusi. La provocazione artistica ha abituato gli addetti ai lavori, e spesso nascondono precise strategie di “vendita” del prodotto artistico studiate a tavolino. Ma queste frasi, poi parzialmente ritrattate, nulla hanno a che vedere con i meccanismi promozionali e hanno finito col danneggiare il film e sono costate al regista danese la cacciata dal Festival.
E’ veramente difficile riconoscere nell’uomo che straparla ai giornalisti, l’autore tormentato e profondo che conosciamo attraverso i suoi film.


Ofelia  John William Waterhouse
 
Ofelia  John Everett Millais



Melencolia  Albrecht Dürer

Ofelia  John William Waterhouse

Piazza d'Italia  Giorgio De Chirico