AmicoHarvey Film

AMICOHARVEY FILM

sabato 28 gennaio 2012

"Una Storia Vera" di David Lynch - a cura di Giuliana Ceralli



Una storia vera, film del 1999 diretto da David Lynch, ci presenta una trama lineare ed una sceneggiatura assai coinvolgente. Si basa su un fatto realmente accaduto, raccontando la storia di Alvin Straight, un contadino settantatreenne dell’Iowa (USA) che intraprende un lungo viaggio a bordo di un tagliaerba per andare a trovare il fratello reduce da un infarto.
Il protagonista vive con la figlia Rosie, che una sera riceve una telefonata: Lyle, il fratello di Alvin, con il quale le relazioni sono interrotte da parecchi anni, ha avuto un infarto e non sta affatto bene. Alvin decide così di andarlo a trovare e, dato che non può più guidare l’auto, intraprende il viaggio a bordo di una lenta motofalciatrice. Si attrezza con un rimorchio provvisto di una tenda ed alcuni oggetti necessari ad un uomo sul cui volto e portamento sono ben visibili fin dall’inizio i segni e i limiti dovuti all’età avanzata. Ma nel contempo appaiono subito allo spettatore una grande sensibilità, saggezza e determinazione. Alvin vorrà portare a termine da solo il suo viaggio e nello stesso modo in cui lo ha iniziato; egli stesso si definirà “un uomo testardo”. Queste caratteristiche del protagonista “colpiscono” emotivamente lo spettatore nel corso del film, in particolare nei dialoghi con le diverse persone che Alvin ha modo di conoscere durante il lungo itinerario, ma anche nei  suoi modi di organizzare la partenza e poi affrontare intoppi e difficoltà. Non a caso è frequente, durante la fruizione del film, il desiderio di annotare parecchie frasi significative pronunciate dal protagonista, il cui volto (anche in situazioni in cui l’anziano è solo) ci presenta costantemente sentimenti ed emozioni del presente, ma anche della sua lunga vita trascorsa. Emozioni spesso condivise con gli interlocutori; significativa è la conversazione sulla guerra che induce anche l’altro al racconto di esperienze inquietanti, mentre entrambi le rivivono e le fanno vivere allo spettatore, confermando anche in questo episodio come si assista, guardando Lynch, a un “cinema del sentire”. Anche nella scena finale in cui i due fratelli sono seduti vicini, i prolungati primi piani sui loro volti, lasciano trasparire le emozioni che entrambi condividono. E la prolungata inquadratura del tagliaerba alternata al volto di Lyle fa immaginare e “sentire” chiaramente allo spettatore cosa egli può provare e pensare vicino a un fratello che ha percorso tanta strada con un mezzo così lento per venirlo a trovare e fare finalmente pace; un viaggio tanto voluto quanto faticoso. Poche parole, ma un’empatia straordinaria fatta anche di sguardi e pianti trattenuti.
È così che la fruizione del film, favorita da una frequente lentezza della macchina da presa, innesca nello spettatore una molteplicità di emozioni, riflessioni, inquietudini, ricordi… legati anche ad alcuni temi ricorrenti o comunque frequenti nell’esistenza umana in generale.

Il viaggio richiede, in chi lo compie da solo e in condizioni non certo facili, una buona dose di coraggio e determinazione, talvolta sofferta, per giungere alla meta; ma anche tranquillità e saggezza, accettando ed affrontando gli ostacoli con serenità e abilità nel cogliere, a partire da situazioni inattese, l’opportunità di vivere brevi ma intense relazioni sociali con parecchie persone. Si tratta allora non solo di un viaggio inteso come spostamento fisico per raggiungere una meta, accompagnato da immagini di paesaggi solari e “immensi”, ma anche di un viaggio in cui si mettono in gioco incontri e scambi di umanità, ricordi piacevoli e dolorosi rivissuti emotivamente. Quasi un viaggio paragonato allo svolgersi dell’intera esistenza. Lo stesso Alvin afferma di essere in viaggio praticamente da tutta la vita. In questo viaggio e in questi incontri viene chiamato a mettersi in gioco anche lo spettatore; anch’egli vive empaticamente le situazioni del film, presenti o rievocate; in questo è aiutato dai suoni, dai movimenti lenti della telecamera, dalle lunghe pause degli interlocutori, dai primi piani su di essi, dalle immagini della natura e dalle inquadrature di elementi significativi, ad esempio l’afferraoggetti, il tagliaerba nella scena finale, il fuoco assai frequente durante le conversazioni notturne. Si può pensare anche al cielo stellato, ai campi sterminati e solari ma anche cieli plumbei che preannunciano un temporale.

La relazione tra fratelli è assai rilevante, considerando che il motivo del viaggio di Alvin è il desiderio di riconciliarsi col fratello Lyle, con cui i rapporti sono interrotti da dieci anni. Tuttavia, sembra dirci il regista attraverso le penetranti parole del protagonista, l’interruzione di una relazione non cancella il legame profondo e i ricordi di esperienze significative condivise da due fratelli. “Nessuno conosce la tua vita meglio di un fratello che ha quasi la tua età” dice Alvin ai due fratelli litigiosi dell’autorimessa, volendo comunicare anche a loro la peculiarità e l’empatia insita in questo specifico legame familiare.

Il dialogo tra Alvin e parecchie persone che incontra nel suo itinerario vede l’anziano protagonista portare in esso qualcosa di sé, della sua vita, della sua storia, con emozioni e riflessioni, passate e presenti. I frequenti primi piani sul protagonista, sul suo volto o comunque sugli interlocutori accrescono la connotazione altamente empatica delle scene.
Inoltre, in queste conversazioni spesso Alvin si inserisce con empatia e originalità espressiva (ad es. chiama la ragazza “principessa”) nella situazione e/o nella problematica dell’interlocutore, per indurre anch’esso ad una profonda riflessione, quasi come volesse “regalare” all’altro un po’ della sua saggezza.

Segue l’analisi di un dialogo, che ho scelto per la ricchezza dei temi e messaggi comunicativi affrontati e la strutturazione della scena con molti elementi che ne amplificano la dimensione empatica (ambiente notturno, fuoco, condivisione del cibo; ed anche primi piani prolungati, emozioni che traspaiono dai volti, lentezza della telecamera, frasi pronunciate lentamente e con numerose pause)

Analisi di una scena: l’incontro-dialogo con l’adolescente incinta.
Mentre Alvin procede sulla strada, un’automobile lo supera veloce e si vede in lontananza una persona che fa cenno di chiedere un passaggio. L’automobile sfreccia oltre ed Alvin si avvicina; poi, continuando a procedere con serenità e determinazione, si volta salutandola con un gesto della mano e guardandola con un sorriso. È ancora giorno, la strada e i campi vicini sono assolati. La ragazza, un’adolescente dall’abbigliamento sportivo con uno zaino sulle spalle, ricambia lo sguardo con freddezza; per alcuni secondi osserva l’anziano che viaggia e poi volge lo sguardo dalla parte opposta, dando la sensazione di estremo distacco dall’evento appena trascorso.

Poche ore dopo la scenografia, i colori, le immagini dell’ambiente sono profondamente cambiati; non più un paesaggio solare e un cielo azzurro sopra pianure sterminate, ma prato al buio, bosco vicino, il protagonista seduto e stanco che sta cuocendo salsicce sul fuoco.


Si avvicina esitante la ragazza di prima. È incerta nell’avanzare, non ha più l’atteggiamento duro e freddo di alcune ore prima. Alvin alza lo sguardo verso di lei con occhi di attento osservatore; la riconosce. La giovane, pronunciando le prime parole (“Non si è fermato nessuno…”) esprime col volto serio un bisogno di comunicare, una richiesta di aiuto. Dopo alcuni attimi di silenzio in cui Alvin riflette serio guardando in basso, egli le domanda se ha fame, generando un lieve sorriso sul volto della ragazza; sembra sentirsi accolta. Alvin le offre salsicce, che lei inizia a cuocere al fuoco e la conversazione procede con lunghe pause. Intanto la giovane posa uno sguardo disgustato sul mezzo di trasporto di Alvin e subito commenta: “Che schifo di rottame”. 
Allora il vecchio replica con saggezza, al tempo stesso simpatica e provocatoria, continuando la cottura al fuoco: “Pensa a mangiare, principessa”. Lo dice con un tono serio, tranquillo e deciso, ma “buono”, senza alcun sarcasmo o risentimento, quasi a voler dire cosa è importante in quel momento per una ragazza così sola di sera (mangiare, nutrirsi), tralasciando inutili giudizi sulle parole dispregiative appena udite.
Segue un lungo silenzio con primi piani prolungati su entrambi gli interlocutori ed anche sul fuoco scoppiettante.
La ragazza rompe il silenzio: “È da molto che sei in viaggio?”
“Beh, praticamente da tutta la vita”, risponde Alvin e anche qui più che attenersi allo stretto contenuto della domanda, sembra voler dare inizio a un dialogo più profondo; condividere anche con lo spettatore l’idea della vita intera intesa come viaggio: un viaggio che non è solo spostamento fisico verso terre lontane, ma pure tutta la storia personale “sentita”, ricordata, condivisa, raccontata.
Poi la conversazione procede sul tema della famiglia e Alvin, dopo aver accennato alla sua storia e situazione (quattordici figli di cui solo sette sopravvissuti dopo la nascita, la moglie morta undici anni fa), domanda: “Dov’è la tua famiglia?... Sei scappata di casa?... A che mese sei?” Solo a quest’ultima domanda la ragazza affronta la difficoltà del rispondere e dice: “Al quinto”. Allora Alvin comunica la destinazione del suo viaggio: andare a trovare il fratello a Mount Zion, nel Wisconsin. Dopo brevi battute divertenti sugli abitanti di questa località, i due riprendono seriamente. Alvin offre una coperta e dopo un lungo silenzio la ragazza rompe il ghiaccio proseguendo sul tema della famiglia.  
“La mia famiglia mi odia” dice “…e mi odieranno di più quando lo scopriranno”. Alvin la conforta sorridente, la aiuta, anche con ironia (sul proprio viaggio con quel particolare mezzo), a ridimensionare le sue convinzioni di adolescente: “… prima o poi accetteranno te e il tuo piccolo problema… Un letto caldo e un tetto sono comunque meglio che mangiare all’aperto insieme a un vecchio pazzo che viaggia su un tagliaerba”.
Segue poi il racconto degli eventi che hanno segnato profondamente la vita della figlia Rosie, una madre ferita per sempre da quando le assistenti sociali le hanno sottratto ingiustamente i figli. Una donna che “sa molto bene quello che conta veramente nella vita”. “Era una brava madre” dice ancora il padre, dando alla ragazza e coinvolgendo lo spettatore in altri messaggi di vita e saggezza. Momenti che ci rendono partecipi dell’inquietudine, della drammaticità di un racconto di vita; caratteristiche amplificate anche dal buio, dalle pause, suoni, immagini del volto sofferente di Rosie che piange nella notte pensando ai suoi figli che non può più vedere.
Il dialogo si conclude col racconto del mazzetto di bastoncini legati, simbolo della famiglia. Ed è proprio questo mazzetto che Alvin trova al mattino quando si sveglia, lasciato dalla ragazza che dimostra di aver compreso i messaggi profondi del vecchio; un dialogo vissuto con empatia, uno scambio di storie personali lascia una traccia, sembra volerci dire il regista anche con le immagini; e questo lei stessa vuole comunicare col suo gesto.
Nel dialogo descritto entrambi gli interlocutori portano molto di sé, della loro storia ed emozioni, in un’atmosfera che ne accresce la drammaticità e l’inquietudine, dove però c’è spazio anche per brevi momenti in cui si ride insieme e si vedono con ironia alcuni aspetti della realtà e del viaggio stesso del protagonista… a bordo di un tagliaerba, un mezzo senza dubbio molto strano per una destinazione così lontana. E in questo contesto lo spettatore non può che ritrovarsi pienamente coinvolto empaticamente; si tratta di un dialogo lento, ricco di primi piani sugli interlocutori, sui volti dai quali traspaiono pienamente emozioni e sentimenti, in un periodo della giornata (la notte) che induce alla riflessione. Vicino a un fuoco che non solo è importante per cuocere il cibo di cui saziarsi (un bisogno essenziale, come fa notare Alvin alla ragazza); ma anche un fuoco che accompagna e porta calore e vicinanza emotiva in una conversazione. Un fuoco che è presente, durante tutto il film, in molti altri momenti di solitudine del protagonista e di conversazione.
  
Gli incontri-dialoghi
  


ALVIN   Mi piace tanto guardare il temporale.

ROSIE   Anche a me, papà.





  

RAGAZZA   È da molto che sei in viaggio?



ALVIN   Beh, praticamente da tutta la vita.

  

DANNY   Ho pensato che potrei accompagnarti io fino a Mount Zion.

ALVIN    Ti ringrazio, ma voglio andare fino in fondo a modo mio.


ALVIN   Il vizio dell’alcol l’ho preso in guerra. Un prete mi ha aiutato a capire la ragione per cui bevevo: rivedevo continuamente tutto quello che avevo visto laggiù… È impossibile dimenticare.




ALVIN   Nessuno conosce la tua vita meglio di un fratello che ha quasi la tua età. Sa chi sei e cosa sei meglio di chiunque altro.



ALVIN  …È così vicino che sento già la sua presenza… Eravamo fratelli inseparabili da ragazzi…Guardavamo le stelle, il cielo.
[Poi] rabbia, vanità, mescolate insieme all’alcol… Ma ora non importa. Voglio fare pace. Voglio stare con lui, guardare le stelle.


LYLE   Hai fatto tanta strada con quel coso per venire da me?

ALVIN   Sì, Lyle.


 
IL CIELO STELLATO introduce e conclude il film. Quasi una comunicazione con la natura, l’infinito, che accompagna il legame dei due fratelli. Già quando erano ragazzi; ed ora, quando si rivedono e riprendono le relazioni.









lunedì 16 gennaio 2012

"Midnight in Paris" di Woody Allen - a cura di Rossella Carluccio

Apologia di una passione. Radiosa, emozionante e malinconica l’ultima produzione di Woody Allen. “Midnight in Paris” è quello che vuole essere, senza fraintendimenti. La consacrazione sullo schermo dell’amore che il regista newyorkese ha per la ville lumierè. Già in Tutti dicono I love you del 1996, si intravedono scorci della beata Parigi, ma qui il regista ritorna volutamente sui propri passi per realizzare quest’ultima opera, surreale, nostalgica ma anche effervescente, iconografica nel raccontare l’age d’or ed estemporanea nel ricorrere riflessioni sull’amore, le coppie e la vita.

Con una carrellata di cartoline animate, Allen ci indirizza sin da subito, già dalle prime scene a quello che lo spettatore ripercorrerà per tutto il film: la magia della città, tra i suoi boulevard, tra le acque limpide della Senna, ai piedi del Sacro Cuore, nelle sue piazze e tra i suoi cittadini.

Un incipit che non può che ricordare l’overture di Manhattan del 1978, film simbolo dove il regista innalza un tributo alla sua città natale. E se in Manhattan in rigoroso bianco e nero un monologo iniziale accompagna simbioticamente le scene presentate, in quest’ultimo Allen si affida solo ed esclusivamente ai colori, alla geometria, ai contorni di Parigi.


Una vera e propria dichiarazione d’intenti, un amore trasudato in ogni inquadratura. Parigi carica di storia in ogni sua grande monumento, Parigi fascinosa ed elegante in ogni nido di asfalto, Parigi ed il retaggio che si porta con sé fino ai giorni nostri.


Il film celebra anche il periodo d’oro quello degli anni 20, così tanto amata da scrittori, pittori e artisti, così amato da Gil, protagonista sognante del film, così amato da Allen stesso che fa incarnare al suo personaggio – Owen Wilson nella sua stonante allegoria naif - un percorso che avrebbe voluto intraprendere lui stesso.
Gil è a Parigi con Inez, sua futura moglie e i genitori di lei. Autore di sceneggiature hollywodiane, Gil è in verità un eterno sognatore e rincorre il sogno di scrivere opere impegnate, rifacendosi ai suoi idoli letterari come Scott Fitzgerald ed Ernest Hemingway. L’occhio da turista americano ricerca proprio tra le bellezze e lo splendore della vie en rose ogni sorta di ispirazione per il proprio romanzo, ancora incompiuto. Ma proprio in una passeggiata notturna una strana automobile d’epoca traghetterà il protagonista in una frizzante Parigi bohemien. Gil è così catapultato in un mondo finora solo letto o fantasticato: accompagnato da John Fitzgerald e dall’esuberante moglie Zelda si trova tra feste e girovaganti tour notturni, confrontandosi con Hemingway, ammirando opere ancora in produzione di Picasso, ascoltando le elucubrazioni di uno stravagante Salvador Dalì e frequentando quel tanto discusso e agognato salotto di Geltrude Stein.

Un salto che ricorda da vicino quello tanto surreale quanto incantevole raccontato ne La rosa purpurea del Cairo del 1985: Mia Farrow dà qui il volto a  Cecilia barista avvilita e dismessa  da una vita al quanto grama che trova come unica valvola di sfogo l’andare al cinema ad ammirare il suo film preferito, La Rosa purpurea del Cairo per l’appunto. Ma la sua vita cambia quando Tom, attore in bianco e nero protagonista del film, esce dallo schermo per incontrarla nella sua realtà.


Anche in questo caso il divario tra idoli e comuni mortali si assottiglia: come nei protagonisti della Rosa Purpurea del Cairo, anche gli artisti di Midnight in Paris esteriorizzano difetti, vizi e lacune e vengono posti sullo stesso piano dei protagonisti, un piano più umano e leggibile.
I protagonisti alleniani, d'altronde, si ritrovano loro malgrado a scontrarsi sempre con le loro forbite meditazioni, districando rapporti sentimentali disconessi, scambiandosi reciproci ipotesi e teorie sui desideri della vita, sulle dinamiche di coppia, e vivendo costantemente nei loro stessi dialoghi, e così poco nella realtà.

Così anche qui è surreale e onirico l’amore di Gil per Adriana, sensuale e ammaliatrice, musa ispiratrice di Picasso e Modigliani, personificata da una splendida Marion Cottilard. Lei è la compagna femminile del suo viaggio nel tempo e l’inconsapevole dispensatrice del messaggio ultimo a cui vuole approdare l’opera: come Gil, infatti, è un outsider dei suoi tempi prediligendo l’epoca bohemien, così Adriana è affascinata della belle epoque parigina anziché dal suo presente. Una scelta e un amore che non può trovare un riscontro nella realtà ma solo nel sogno.
Il non voler accettare questo presente, sempre così scontato, inadeguato, noioso, banale, ricercando – e su questo Allen fa riflettere bene – un passato che ci sembra sempre migliore, più interessante ed elettrizzante è l’idea cardine su cui si basa il film.
Ogni persona in ogni epoca sospira i tempi andati, in una malinconica corsa contro il tempo passato, come se fosse la via d’uscita per accettare ciò che il presente è, come per esorcizzare tutta la paura, la carenza, e i fallimenti quotidiani. Non ci si accorge che anche vivendo nel passato sembra migliore sempre il periodo precedente, in un circolo vizioso che sembra non finire mai. Ma nulla può consentirci di fuggire da noi stessi e dal nostro tempo e forse – sottolinea Allen – è meglio così. Da buona commedia, “Midnight in Paris” ha l’happy ending  sempre dietro l’angolo, lasciando allo spettatore ultimi spasmi del sogno malinconico di una Parigi che può tutto.